Menu
Read more

Villa La Madone

Previous

Helipad Capo Verde

Next

Villa Beusi

Location:

Roquebrune Cap-Martin, France

Year:

2013-2015

Client:

Private

Budget:

5.200.000 €

Contract:

Preliminary, Final, Executive and Works Management

Project Team:

Ing. Todeschini (strutture), Ing. Canavese (impianti idraulici), Ing. Massimo Ornato (impianti elettrici), Ambiente Luce (progetto illuminotecnico)

Info:

630 mq; Photo: Aldo Amoretti

Se per un architetto progettare una casa di famiglia è un tema molto comune, rimane pur sempre un tema complesso. Crediamo lo sia soprattutto perché si è costretti ad affrontare con il cliente dinamiche di rapporto molto speciali. Per il tempo che ci viene concesso per la progettazione e per l’esecuzione dell’opera, con modalità alquanto singolari, si entra infatti a far parte di quella famiglia, si ha accesso a questioni che, se a volte sono di ordine materiale, spesso varcano confini molto personali. Ecco che, prima di iniziare un lavoro simile, si deve fare pulizia mentale da ogni sorta di recondito narcisismo intellettuale e fare luce dentro di sé sulla prima missione che in questo caso si è chiamati a svolgere, quella di servizio. Saremo infatti chiamati a comprendere le dinamiche che regolano i rapporti tra le persone che compongono questa famiglia, superare inevitabili diffidenze e conquistare a poco a poco quella fiducia necessaria per diventare una guida autorevole nel tortuoso processo di realizzazione della nuova dimora. Gli equilibri in gioco sono sempre molto delicati e si scoprirà che, a prescindere dalla cultura e dalle possibilità economiche dei committenti, questo periodo metterà alla luce in loro, anche tra le personalità più solide e audaci, piccole debolezze, fragilità, incertezze e paure. Questa consapevolezza aiuta a liberare la mente e, di fronte alle ineluttabili esigenze di ordine pratico che ogni famiglia impone, ci permette di perdere un certo attaccamento alla nostra personale visione dell’abitare e al rigore formale dell’opera. Con il progetto di questa dimora abbiamo scelto quindi di esplorare in profondità la parte impalpabile, invisibile e quindi meno tangibile dei rapporti che avremmo generato.

Per poter dare compimento a questa sperimentazione abbiamo voluto essere molto precisi nel definire alcune linee guida di progetto. Avrebbero dovuto allo stesso tempo definire correttamente il rapporto che l’edificio avrebbe instaurato con il territorio a breve raggio e a scala maggiore ma essere contemporaneamente capaci di tenere in sé molteplici gradi di libertà. Era chiaramente necessario che tale incipit avesse la capacità di generare un processo progettuale che dal punto di vista compositivo fosse dichiaratamente “aperto” e che avrebbe potuto essere realizzato letteralmente a “quattro mani” quindi partecipato dall’intera famiglia. Come garantire però il controllo del progetto e un risultato adeguato avendo concepito un sistema così pieno di variabili? L’aspettativa da parte nostra era quella di vedere fino a che punto queste variabili avrebbero invece aiutato la creazione di idee inaspettate, idee che altrimenti non sarebbero potute nascere e di come avrebbero potuto positivamente trasformare l’opera stessa. La radicalità dell’opera non avrebbe perciò dovuto esprimersi formalmente ma attraverso la coerenza a tale processo progettuale. Il punto d’inizio e d’approdo sono stati entrambi collocati nell’adesione ai precisi vincoli di apertura dell’intero processo realizzativo dell’opera mentre il gesto formale è rimasto sempre sospeso e non avrebbe mai potuto perciò essere un gesto fine a sé stesso. L’incipit è stato a un tempo fonte e contenitore di tutte le sue possibilità, che mai hanno avuto realmente un termine proprio perché il divenire non è mai stato scritto in partenza.  I punti di partenza e d’arrivo sono stati resi possibili, hanno raccolto il loro stesso nutrimento, da un sistema d’incontri e relazioni, elaborati e da noi orchestrati attraverso un processo di lavoro che ha coinvolto fino all’ultimo degli attori del processo di costruzione della casa, processo a nostro giudizio affascinante quanto l’attesa del risultato stesso. Il risultato formale dell’opera sarebbe arrivato di conseguenza, consapevoli che in architettura, come nell’arte, esiste una regola che potremmo chiamare dell’accumulazione temporale secondo la quale il valore di un segno è sempre strettamente connesso al significato dei segni che lo hanno preceduto. Nessuna opera, neanche la più radicale e originale, può prescindere da questa dimensione storica del linguaggio mentre il risultato umano legato alle relazioni immateriali connesse ad un processo così indirizzato sono sempre uniche, anche se impalpabili. Lasciano un segno nelle persone e nelle cose. Questo è ciò che per noi conta. Siamo architetti e comunque legati alla materia, siamo costretti gioco forza a lasciare un segno, anche se minimo, nel nostro mestiere non possiamo praticare le sperimentazioni artistiche di Tino Sehgal ma chi ha provato la sottile emozione, meraviglia e sconcerto dell’esperienza legata alle sue opere, può in qualche modo provare a capire la soddisfazione nel vedere crescere un progetto fondato su un processo realizzativo come quello descritto, dove l’imprevisto, il contraddittorio, l’obiezione, la manualità dell’operaio, le conoscenze altrui divengono risorsa continua e fattori di crescita.

Il terreno sul quale siamo stati chiamati a progettare si trova nel comune di Roquebrune Cap-Martin in Francia. E’ situato all’interno di un Domaine chiamato La Torraca. Si tratta di una lottizzazione risalente agli anni ‘60 nella quale sono state costruite una serie di ville e qualche palazzina ad appartamenti dall’architettura piuttosto disomogenea ma che hanno il pregio di godere di un certo “respiro” dato da una distanza tra loro sufficiente per essere colmata dalla prorompente natura tipica della Costa Azzurra. Nel caso specifico lo sviluppo planimetrico del terreno era sud-ovest nord-est con un dislivello tra l’ingresso al terreno e il piano terra della casa esistente di circa 5 metri e mezzo e dalla parte più alta della proprietà di circa 15 metri. L’edificio esistente era collocato in una posizione strategica per quanto riguarda l’esposizione solare e le viste che si potevano godere dall’interno verso la baia di Montecarlo e il golfo di Mentone, perciò la prima decisione condivisa, per quanto concesso dal nuovo programma, è stata quella di inglobarlo nella nuova architettura.

E’ bene ribadire che, in coerenza con quanto spiegato nell’introduzione, il processo progettuale è incominciato e sarebbe continuato con la condivisione e partecipazione alle scelte fatta con i clienti sempre in tempo reale.

Se l’edificio esistente aveva le qualità descritte, non aveva però alcun rapporto con il giardino circostante, rispetto al quale era tra l’altro collocato in posizione piuttosto decentrata. Per il nuovo edificio invece, poteva diventare fondamentale la presenza del giardino, confinante con il lembo più meridionale del parco della villa ottocentesca che fu di proprietà di Cocò Chanel, grazie alle sua naturalità e alla presenza delle sue secolari alberature. Si riconoscevano ancora le tracce di una serie di percorsi esistenti di rara bellezza. La semplicità autentica con cui erano stati disegnati, rispettosi dei dislivelli del terreno, essenziali ma dolci, con i tipici muri di contenimento in pietra ed una totale assenza di formalismi, li rendeva necessari. Abbiamo perciò scelto di realizzare una architettura che facesse della continuità dei percorsi del giardino un valore. Il clima della zona permette di vivere all’aperto buona parte dell’anno e l’edificio avrebbe potuto, nelle sue parti “pubbliche”, non avere soluzione di continuità con tali percorsi. Ecco delinearsi il programma ed una seconda traccia da seguire. I percorsi non potevano che attraversare la casa e trovare compimento sul tetto dell’edificio e quindi il giardino doveva letteralmente salirci sopra. La casa allora cominciava a plasmarsi attraverso le riflessioni e i dialoghi con i committenti come un edificio a due facce: la parte a sud poteva esprimere il desiderio di osservare la vastità dell’orizzonte, la romantica bellezza della Costa Azzurra, essere al contempo osservata da lontano con la dignità di una signora borghese, ma nella sua intimità rimanere profondamente domestica e legata al rapporto sereno con la natura docile del giardino e del micro cosmo naturale che contiene.

Francois Henry Lévy, dice che “insediarsi vuol dire ritagliare un posto tra la genericità dei luoghi, porre un confine tra l’abitato e il non abitato. Questo gesto è un gesto di fondazione, e ogni fondazione implica un orientamento”. Se cominciavamo ad “orientarci” si trattava di affrontare la questione del “confine tra abitato e non abitato”. E’ questa una delle questioni che ci interessano maggiormente del linguaggio dell’architettura: la sua funzione mediatrice tra ambiente ed essere umano. E’ stato quindi doveroso capire come mantenere interessante questo dialogo e perciò confrontarsi con il tema del limite. Quando parliamo di limite ci riferiamo allo spazio. La chiave però non è la geometria dello spazio ma l’insieme delle connessioni e dei collegamenti tra la molteplicità di spazi possibili che la nostra percezione e cognizione della realtà ci fanno individuare. Martin Heidegger così definisce il limite e lo spazio: “Uno spazio è qualcosa che è “sgomberato”, reso libero, all’interno di un limite, in greco peràs. Il limite non è dove qualcosa cessa ma, come avevano ben osservato i Greci, dove qualcosa comincia ad essere. E’ per questo che il concetto è chiamato orusmòs, cioè limite. Lo spazio è essenzialmente ciò che è stato sgomberato, ciò che si è fatto entrare nel suo limite. Ciò che è stato sgomberato è ogni volta dotato di un posto e in questa maniera inserito, cioè raccolto da un luogo […]. Ne consegue che gli spazi ricevono il loro essere dai luoghi e non dallo “spazio”.”

Fondare il nuovo edificio intorno all’edificio esistente ci ha dato a questo punto una doppia opportunità: limitare al massimo la “presenza” esterna del nuovo edificio e del suo vasto programma rispetto al giardino e definire chiaramente gli spazi interni. Sono stati mantenuti due nuclei ben definiti dell’edificio esistente: il volume corrispondente alle quattro camere a sud est e il nucleo che corrisponde alla cucina al piano terra ed allo studio al piano primo. Di fatto sono le zone più intime della casa fatta eccezione per l’ampliamento al primo piano ad est, volume a sbalzo al cui interno c’è la zona letto dei genitori. Intorno a questo nucleo “originario” si sviluppano tutti gli spazi comuni della casa.

Dall’ingresso della proprietà, a sud ovest, l’occhio di chi arriva è indirizzato sulla grande loggia in aggetto. E’ il grande occhio di casa sul paesaggio e sul golfo di Mentone sospeso su di un agrumeto che fa da filtro tra la strada di accesso e gli spazi domestici del piano terra. Arrivati sulla sommità della salita, uno dei muri in pietra della casa, bagnato dalla cascata d’acqua della fontana posta sulla sommità del basamento che sostiene, indirizza il visitatore sulla grande scala di accesso all’ingresso della casa, in pietra bianca. Salita la scala, arrivati al piano d’ingresso, abbiamo superato un dislivello di circa 7 metri ma non ce ne siamo quasi accorti. Un portico molto schiacciato dietro al quale un ulivo riempie una corte verde ci conduce alla porta di casa. Varcata la soglia ci rendiamo conto che siamo in casa ma è come se fossimo ancora in giardino, l’ulivo è in casa, siamo di fatto ancora nella corte. E’ uno spazio cerniera caratterizzato dalla presenza di una zona di attesa e relax intorno al camino. La pavimentazione esterna entra nell’abitazione senza differenze. Un grande quadro seicentesco posto in cima alla grande scala che conduce al piano primo attira l’attenzione e invita a raggiungere lo spazio del salotto di casa. Finalmente, accompagnati dalla luce azzurra del soffitto che nella parte iniziale del percorso è inclinato,  ritroviamo il mare attraverso la grande cornice della loggia. Ci si accorge subito che il limite dello spazio è delimitato dalla loggia esterna e non dalle grandi vetrate a tutta altezza. La pavimentazione, realizzata con la stessa pietra sulla quale camminavamo all’esterno, ha preso nel frattempo una finitura sempre più morbida e si è impreziosita. I suoi corsi giungono fino al limitare della terrazza senza differenza alcuna. Persino nello studio alle nostre spalle, dove la pavimentazione diventa di legno, entrano alcuni inserti in pietra a segnare la permeabilità di uno spazio sull’altro. Il volume delle camere che si sviluppa dal piano terra al primo è identificabile dal colore dei muri e lo potremo leggere nella sua interezza scendendo la scala per raggiungere, al piano terra, la sala da pranzo posta accanto alla cucina. Anche questo spazio è dilatato verso l’esterno. La pavimentazione in pietra bianca termina sulla vasca d’acqua esterna, al limitare della loggia definita dallo sbalzo di quella superiore. Le porte finestre sono realizzate con serramenti scorrevoli i cui profili sono incassati a pavimento e a soffitto. Quando vengono aperti scorrono nel muro e sono totalmente a scomparsa. La sensazione di vivere all’aperto è sempre presente. Dalla cucina, da un accesso celato dai mobili, si può accedere allo spazio di servizio della cantina dei vini ne parliamo per poter raccontare un divertente aneddoto che riguarda la realizzazione di questo piccolo spazio. Siamo a Roquebrune, e come dice la parola stessa, siamo su di un grande promontorio roccioso che arriva fino al mare, quel mare che così tanto amava Le Corbousier e dove costruì il suo Cabanon, accanto alla splendida passeggiata, che da Mentone conduce a Montecarlo. Nel concepire sulla carta la posizione della cantina vini avevamo dato per scontato di trovare la roccia sulla parete a monte. Durante il cantiere invece, facendo gli scavi, l’unico punto nel quale non abbiamo trovato la roccia ma un riporto di terra è stato quello. Abbiamo coinvolto perciò la famiglia nella realizzazione di un pannello di cemento armato prefabbricato in opera, gettato orizzontalmente, sul quale tutti insieme, architetti, ingegneri, operai, bambini e signore ci siamo divertiti a disegnare il nostro muro in pietra, come un puzzle, scegliendo le pietre da buttare nel getto. Come si può immaginare eravamo ancora lontani dal potere fare immaginare una casa agli attori del nostro processo progettuale ma l’emozione di partecipare fisicamente a costruirne già un pezzo è stata importante. A casa finita, i dettagli di disegno e realizzazione molto complessi non si contano, ma quelle pietre raccolte in giardino e gettate nel cemento a comporre quel muro sono rimasti significativi. Questa esperienza è servita a trasformare la partecipazione indiretta della famiglia e di tutti gli attori della costruzione in un’esperienza collettiva che perdurerà nella memoria individuale, imprecisa e soggettiva, di ogni singolo testimone. E’ stato un modo per riflettere sul significato ancestrale che ha la casa per l’uomo. Non ha fatto differenza alcuna infatti che questa fosse la dimora di una famiglia con grandi disponibilità anzi, è stato particolarmente significativo vedere il proprietario di casa, un imprenditore a capo di una azienda con centinaia di dipendenti, lavorare in maniche di camicia con il medesimo entusiasmo del figlio, della moglie e di tutti gli altri, e vedere infine la soddisfazione negli occhi di tutti quando il setto terminato è stato riposto in opera.

Tornando a parlare del nodo principale del progetto, ovvero la sua strutturazione aperta, è doveroso fare un accenno agli spazi di servizio della casa, che mano a mano sono cresciuti, hanno subito modifiche di ogni tipo in un gioco collettivo di proposte, scelte, passi indietro e in avanti.  Pensando a questa esperienza mi piace citare Wynton Marsalis quando parla del suo modo di suonare il Jazz: “Il jazz è l’arte del timing: ti insegna il “quando”. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo.” L’esecuzione della musica classica infatti è altro, significa prepararsi insieme al direttore d’orchestra per una esecuzione perfetta, mentre il jazz presuppone preparazione, ritmo, ma anche affiatamento, istinto, creazione, improvvisazione e soprattutto tanto divertimento. Quando il padrone di casa ha proposto di mettere in comunicazione i due spazi ludici delle piscine, abbiamo progettato due grandi oblò sul fondo della piscina scoperta così da poter vedere il cielo da quella inferiore attraverso l’acqua della piscina superiore. Il beneficio che la luce naturale avrebbe portato nello spazio era immaginabile ma più della difficoltà della realizzazione tecnica contava sapere che comunque gli esiti del risultato ci avrebbero sorpreso. La presenza degli oblò ci ha obbligato a pensare ad un certo tipo di illuminazione artificiale e così via. Questo è il timing. Se si suona bene insieme è questo. Ogni musicista dona la sua personale interpretazione, ma suona con gli altri e vuole essere stupito. Ci sono poi gli assolo come quello dell’operaio siciliano che ha realizzato quasi tutti i rivestimenti in pietra. Con la sua calma e il suo occhio esperto ha saputo scegliere pietra dopo pietra il materiale che in parte abbiamo trovato negli scavi ed in parte abbiamo recuperato da un cantiere nelle vicinanze. Ha saputo donare il suo particolare timbro alla vibrazione musicale d’insieme.

La sperimentazione di questo processo è stata un’esperienza significativa ma è chiaro che, per definizione, tale processo progettuale non si è chiuso con il cantiere. La famiglia ora vive nella sua abitazione e la sta continuando a trasformare, naturalmente senza architetti. Questo inevitabilmente cambierà molte cose ed è giusto che sia così. Ci piacerebbe che leggendo questo testo e osservando queste immagini, in una forma o nell’altra il gioco potesse avere per qualcuno ancora un certo seguito. Si è riflettuto sul concetto di limite e sulla sua inevitabile relazione con quello di spazio e allora perché non continuare a giocare e chiederci, di volta in volta, osservando le immagini che accompagnano questo breve testo, dove dovrebbe essere collocato per noi tale limite?